Ormai il doping ha ridotto il ciclismo ad una farsa. A pagare maggiormente le conseguenze di quest’ennesima congiuntura incresciosa è ancora una volta il ciclismo italiano.
Riccardo Riccò ci aveva entusiasmati. Grazie a lui c’eravamo quasi dimenticati del fenomeno metastasizzante il Mondo dello sport col ciclismo a farsene portavoce. Eravamo disposti a mettere da parte ogni cattivo pensiero e per una volta volevamo illuderci che fossimo davanti ad una grande promessa del ciclismo internazionale ma innanzitutto italiano, per una Nazione che da tempi non sospetti latita quanto a campionissimi del pedale, specie in salita e che quindi era bramosa di ritornare ai vertici in questo Tour che negli ultimi decenni ci ha quasi sempre rifilato ceffoni a ripetizione.. Riccò poteva essere l’uomo nuovo della bicicletta, colui che ci avrebbe riportato finalmente in auge. Gli avevamo perdonato persino il suo modo di fare non certo intriso di umiltà che a volte sfociava nella altezzosità. Confidavamo in lui e lui ci ha traditi. Ha tradito la nostra passione, il nostro tifo, le nostre speranze. Ha disilluso il Mondo del pedale. Ma ciò che più conta è che ha tradito se stesso. Il caso del corridore in questione (in procinto di compiere 25 anni) è purtroppo soltanto l’ultimo di una sfilza di nomi che non tende ad esaurirsi, fra cui personaggi illustri per i quali si erano versati vanamente fiumi di inchiostro e spese parole lodevoli. Tutto cominciò nel 1999 con Pantani che al Giro d’Italia di quell’anno principiò una parabola discendente che lo porterà alla morte prematura nel 2004 a soli 34 primavere. Sinora ci si interroga sulla sua presunta colpevolezza. Ci si chiede se fu una sua libera scelta quella di doparsi o se fu in qualche modo indotto da qualcuno o dagli eventi. O se, ipotesi allucinante (che aprirebbe scenari raccapriccianti) ma non remota, addirittura sia stato vittima di un complotto, per una risoluzione che ci aiuterebbe a far chiarezza anche in un’ottica più generale. Il suo dramma fece da apri pista ad un tunnel che non vuole sapere di far sorgere la luce. Poi qualche anno fa comincerà una serie di squalifiche definitive o sospensioni che metteranno in ginocchio l’intero sistema andando a creare un vero e proprio albo nero del ciclismo da contrapporre scrupolosamente a quello d’oro. Ad essere chiamati in causa in un modo o nell’altro, stranieri a parte (Ullrich, Riis, Landis, e Rasmussen in testa) saranno ciclisti del calibro di Ivan Basso (ritornerà soltanto nel 2009 dopo 24 mesi di stop forzato), Daniele Bennati, Danilo Di Luca, Christian Moreni, Dario Frigo, Gilberto Simoni, Paolo Bettini e dulcis in fundo colui che si apprestava a diventare il più grande sprinter d’ogni epoca, ovvero Alessandro Petacchi, l’uomo per cui valeva la pena più di ogni altra cosa di seguire codesto sport. Dopo esser stati decimati dall’antidoping non ci restava che risalire le scale dell’umiltà ed apprestarci a ripartire daccapo. Proprio Riccò rappresentava la chiave di volta. Si è rivelata invece l’emblema del ciclismo azzurro che si appresta a discendere negli inferi. Oramai siamo tutti nauseati da questa spregevole situazione venutasi a forgiare nel tempo. Che senso ha seguire ed appassionarsi a questo sport? Che senso ha commentare e scrivere d’imprese che poi si rivelano puntualmente farlocche? Basterà il perseverare dei controlli a tappeto a porre un freno a questa piaga? C’è uno spiraglio di luce nel futuro o dovremo rassegnarci alla morte dello sport più sano per antonomasia? - articolo letto 235 volte