Catania: l’amore sotto il vulcano

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Iniziamo dal goal di Bergessio. Ripartiamo da quella palla spinta con tanta rabbia, senza pensare allo stile, che si è infilata in un modo o nell’altro alle spalle del portiere.

L’immagine è ancora viva davanti agli occhi di tutti, Gonzalo non calcia, scaccia! Non tira a giro di piatto, o con un colpo di mezzo esterno, o con un tocco furbo di punta: va lì e colpisce duro, manda via i cattivi pensieri, scaccia via le paure. Un calcio a chi pensava che per fare un goal servisse un direttore e uno a chi lo aveva etichettato come modesto finalizzatore per le poche reti in Francia. Se non fosse stato così rabbioso quel tiro non sarebbe mai entrato.

Un tiro che a dire il vero fa da contraltare a quelli del Maxi Lopez collezione “Autunno-Inverno 2011”. Un tiro come una spia, che rivela un atteggiamento, svela un sentimento. Maxi e il suo tiro strozzato, sempre d’interno, sempre innocuo. Eppure è lo stesso che un anno fa mangiava l’erba e abbatteva le porte. La differenza sta tutta nella sua testa, forse nel rammarico di non essere già approdato in un’isola più felice di questa, o forse nella paura di giocarsi male adesso la chance di ritornare nell’olimpo. Vorrebbe fare di più, molto di più, per sé e per la squadra, e la differenza sta tutta negli occhi preoccupati di oggi e in quelli affamati di ieri. Neppure un goal di rapina che rimette in piedi la partita, come successo domenica, gli ha tolto quegli occhi. Eppure il campione è sempre lì, il talento è ancora cristallino ed è impossibile intaccarlo in appena sei mesi.

Questa storia, ad ogni modo, dal nostro punto di vista è tutt’altro che nuova. Catania e le sue passioni, Catania e la sua natura. Ho l’impressione che i nostri siano sempre dei grandi amanti e dei pessimi mariti. Catania sedotta e “abbandonata” ma felice. Sarà che siamo un porto di mare, sarà che le dominazioni sono state molte e tutte diverse, ma la nostra natura è quella del fuoco che brucia forte e in fretta. La nostra stessa terra è fatta di e da un fuoco che si spegne.

E così, come dice qualcuno, ogni volta che il direttore Lo Monaco che non ha seguito fino in fondo i suoi convincimenti, le cose non sono poi andate esattamente per il meglio. Fu così che Spinesi non andò a Genova nel mercato di riparazione il primo anno in A, per vedersi tarpare le ali da un trapattoniano Baldini l’anno successivo. Fu così che assistemmo al tracollo di Pantanelli, come al declino del genio di Caltagirone. Ed è così che assistiamo all’ascesa si spera, dell’ennesimo “straniero” da amare per un anno o poco più. Perché siamo fatti così. Ci saranno sempre un azzurro più intenso e un rosso più acceso ma oggi vogliamo pensare che non ci lasceremo mai, perché sarà sempre troppo presto per farlo.

Voglia di bandiere, di continuità, di affezionarci. Voglia di non essere più il trampolino per nessuno. Voglia di un ciclo che duri più di quello solare. All’elefantino però, come allo scorpione che punse la rana, non resta che accettare la sua natura. Brucia forte il vulcano ma brucia in fretta, forse meglio lasciarsi con la luce negli occhi e non “quando sono già i ricordi che hanno preso casa qui”.

[Daniele Lodini – Fonte: www.mondocatania.com]