Javier Zanetti: Io sono il numero quattro

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Aveva appena 19 anni quando il Talleres, dopo averlo promosso titolare nel campionato giovanile, lo lanciò in prima squadra nel 1992, consentendogli di mettere in mostra le sue indiscutibili ma ancora inesplorate appieno qualità.

Da allora, l’esplosione con la maglia del Banfield, fino alla chiamata dall’altro capo del mondo, dall’Italia, dall’Inter, per l’inizio di un’insospettabile ma altrettanto unica storia d’amore con i colori nerazzurri. Arrivato in punta di piedi assieme al ben più sponsorizzato Avioncito Rambert, El Tractor, soprannome con cui si presentava al popolo italiano, ha impiegato ben poco a farsi amare dai tifosi dell’Inter. Nel 1995 lui e Roberto Carlos rappresentavano due autentici bolidi sulle fasce, ma ancora si poteva appena percepire il valore di questo fenomeno.

In 16 anni di Inter Pupi, come è stato ribattezzato nel tempo, ne ha viste di cotte e di crude: stagioni fallimentari, scudetti persi al fotofinish, allenatori sostituiti come se fossero indumenti intimi, cambi e controcambi ai vertici del club, eliminazioni dall’Europa dolorosissime, ribaltoni da parte della giustizia sportiva, storici trionfi e molto, moltissimo altro. Insomma, in 16 anni all’Inter ne sono successe di cose, ma l’unico punto di riferimento che non si è mai tirato fuori e ha continuato ininterrottamente a rappresentare l’Inter è stato lui, Javier Zanetti. Ieri, contro la Roma, il capitano ‘iconico’ nerazzurro ha tagliato il traguardo delle mille partite in carriera, Selecciòn compresa. Il 10 agosto saranno 38 primavere sulle spalle, ma alzi la mano chi, non sapendolo, azzarderebbe questa età. Sarà per la cura dei capelli, o forse per il fisico d’acciaio, ma in molti oggi lo considerano una sorta di Superman. Perché nonostante un’anagrafe impietosa lui è sempre lì, al suo posto, con il numero 4 sulle spalle (che un giorno, quando deciderà di arrendersi alla natura, verrà meritatamente ritirato), a correre dietro l’avversario di turno, a portare avanti il pallone oppure, novità degli ultimi tempi, a lanciare da campo a campo i propri compagni.

Sostenere che molti calciatori dovrebbero prendere esempio da lui è puro eufemismo: per la cura maniacale di un fisico che non accenna a cedere (chiedere alla moglie Paula, che lo segue continuamente); per una vita sempre lontana dai riflettori e dedicata al pallone e alla famiglia (la sua e quella nerazzurra); per la costanza con cui, come in campo, si impegna in favore dei bambini argentini attraverso la Fundaciòn Pupi; ma soprattutto per la passione incondizionata con cui oggi simboleggia la parte più bella del calcio e, da interista, mi vanto di aver goduto appieno di questa sua ampia parentesi nerazzurra. Passione che può essere paragonata solo a quella della buona tavola, soprattutto argentina, come ben sanno i propri compagni di squadra e gli avventori del suo ristorante a Milano; e per il canto, sfociata anche in uno splendido duetto con Mina con lui a vestire i panni di Alberto Lupo in ‘Parole, parole, parole’.

Purtroppo ha vinto meno di quanto avrebbe voluto e potuto, ma la sorte alla lunga lo ha risarcito di tante amarezze. Negli ultimi anni è diventata infatti abitudine vederlo sollevare al cielo trofei, scena che pur nella sua ripetitività non stancherebbe mai. E dopo aver superato un mostro sacro come Giacinto Facchetti nelle presenze in maglia Inter, eccolo entrare di diritto in un’altra categoria leggendaria del calcio: quella degli over 1000. A essa appartengono Peter Shilton, Ray Clemence, Pat Jennings, Alan Ball, David Seaman, Paolo Maldini, Andoni Zubizarreta, Roberto Carlos, Tommy Hutchinson: mica dei passanti casuali. E Javier non poteva restarne fuori.

Personalmente, ho tanti ricordi legati a questo fenomeno: un gol da favola segnato a Verona saltando tutti gli avversari come birilli; il battibecco con Hodgson a causa di una sostituzione, concluso poi con un abbraccio tra i due; la rete nella finale di Coppa Uefa a Parigi, il primo trofeo conquistato con l’Inter; il pianto incredulo nel pomeriggio del 5 maggio 2002; l’assist a Milito per il gol decisivo a Siena nel match decisivo per l’ultimo scudetto; infine le lacrime di Madrid, che ancora oggi mi procurano la pelle d’oca al solo pensiero. Già, perché da tifoso, così come tutti gli altri, capisco benissimo quanto Zanetti ha dovuto soffrire e lavorare per raggiungere questo traguardo che spesso, anche a mo’ di sfottò, in molti gli dicevano che non avrebbe mai vinto. Io come lui e gli altri tifosi abbiamo toccato il cielo con un dito lo scorso 22 maggio, e abbiamo pianto di gioia assieme al nostro capitano. Il quale, oggi, continua a difendere la sua Inter dalle accuse derivate da una stagione giudicata al di sotto delle aspettative, come chi rappresenta una grande società è chiamato a fare. E lui è il simbolo di questa squadra, da oltre 15 anni, soprattutto oggi che, sempre con il numero 4 sulle spalle, celebra un altro record personale. Lunga vita al nostro Pupi, dunque: che si tolga ancora tante altre soddisfazioni. Sempre in maglia nerazzurra.

Ah, giusto per restare su un’attualità a 360 gradi, complimenti alla squadra che, nel giorno del traguardo del capitano, raggiunge l’obiettivo della finale di Tim Cup. Si tratta della sesta negli ultimi sette anni, fate voi. Però mi guardo intorno e noto comunque la solita freddezza mediatica sull’argomento, come se il torneo non meritasse particolari attenzioni. Neanche le altre big si preoccupano più di tanto di non essere all’Olimpico tra un paio di settimane. Penso perciò che la Tim Cup, o meglio Coppa Italia, sia quella coppa che tendi a snobbare solo perché non riesci mai a vincerla. La solita storia della volpe e dell’uva. Ah, se fossimo in Inghilterra, quali onori meriterebbe l’Inter…

[Fabio Costantino – Fonte: www.fcinternews.it]