Le facce di Montella: “Chiudete quella finestra”

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BOLOGNA Si dice, e potrebbe esser vero, che il primo passo verso la guarigione da insane dipendenze sia ammettere intimamente e pubblicamente il vizio al quale non si riesce a rinunciare, le sue pericolosità, la propria debolezza di fronte ad esso. Il potrebbe è però d’obbligo, perché quella che fino ad oggi era considerata una regola, trova nel Catania l’eccezione che potrebbe invalidarla. Incredibile, come ammesso da Legrottaglie, ma vero. Dopo l’ammonimento di Parma, i propositi comuni di non ripetere il primo tempo disastroso del Tardini, le rassicurazioni dei protagonisti alla stampa, ecco che a Bologna, giusto la partita seguente, vicina anche in termini chilometrici, non si fa come, persino peggio!

Ragioniamoci. Se l’ammissione c’è stata ma il risultato non è arrivato l’inghippo sta inequivocabilmente in quanto intercorso tra la gara di Parma e quella di Bologna: quasi quindici giorni di stop, un ritiro turbinoso a Malta, una finestra di mercato i cui spifferi rischiano di far prendere un malanno più che a chi partirà, a chi resterà, Montella compreso.

Fermi tutti però se di questi dati oggettivi se ne vuol far un alibi. Alibi non ce ne sono, e non ce ne possono essere, a ricordarlo è lo stadio dove il Catania ottenne la sua prima e più sofferta salvezza battendo, in formazione rimaneggiata, senza il proprio bomber (Spinesi) e con un esordiente dal primo minuto (Biagianti), un Chievo superiore, determinato, compatto, in formazione tipo.

Ed invece, contro un Bologna inferiore, rimaneggiato prima e durante la partita, il Catania che dovrebbe farsi preferire per qualità singole e collettive non riesce mai ad entrare in partita, appare sin da subito lento nei movimenti, svogliato nel fraseggio, timido nell’iniziativa, concentrato altrove. Non sarebbero bastati undici cambi per cambiare il corso d’una partita che appariva segnato sin dai primissimi minuti, quando il Bologna punzecchiava ed il Catania, sonnecchiante, anziché ergersi e reagire, si rigirava da un lato e dall’altro del letto per prolungare di cinque minuti in cinque minuti il suo letargo. Quando non puoi prendertela con tutti i giocatori, per ragioni di tempo o di opportunità, allora il calcio consiglia di additare un sol uomo: l’allenatore, paga lui per tutti.

Riavvolgendo il film (horror) della partita però, ci si ricorda di quelle tre sole ed uniche inquadrature del tecnico rossazzurro, in particolar modo del suo volto: Perplesso dopo appena 5′ di gioco; disgustato al termine del primo tempo; avvilito ed ormai sprofondato nella panchina dopo la rete dell’1-0. Non una reazione, ed anche quando la verità televisiva non corrispondesse alla realtà, quanto vale una reazione dalla panchina se non corrisposta dagli undici sul campo?

Niente. Vale quanto l’urlaccio di un qualunque tifoso contro lo schermo che restituisce immagini lontane migliaia di chilometri dagli occhi, dalle orecchie, da tutto tranne che dal cuore. Lontane come lo era il Catania di Bologna dal vero Catania, dai dettami di Montella che pur stava lì, vicinissimo, a bordocampo. E non è un caso che, nelle smorfie del tecnico catanese, qualunque tifoso potesse ritrovare il proprio stato d’animo: perplesso, poi disgustato, infine avvilito nel dover assister impotente ad un film già visto senza poter stoppare, né metter pausa né tanto meno cambiare pellicola: niente, il telecomando non funziona.

Non funziona o, come accade anche nelle migliori famiglie, c’è qualcosa piazzato in mezzo, di palpabile od impalpabile, che interrompe la comunicazione tra ricevitore e trasmettitore. Cosa è? Sono gli alibi. Ma se gli alibi sono delle colpe, allora smettono di essere alibi. Ed in fondo, a suo modo, anche in questo senso Montella è stato chiaro nel trasmettere il propri messaggi:

a) Un Lopez così in forma, come mostrato anche a Bologna, non può che giocare. b) La finestra di mercato è troppo larga. Quindici giorni basterebbero perché le società prendano o cedano i giocatori che hanno già individuato.

Parla Montella, altroché se parla. Trasmette messaggi in continuazione, con le sua voce, e con le sue espressioni. Poi sta a noi, tutti noi, dimostrarci più bravi della squadra a saperli ricevere e tradurre dal “linguaggio calcistico” alla lingua corrente. Come fare? E’ anzitutto indispensabile toglier di mezzo pregiudizi, giudizi repressi, ed ogni altra cosa o persona si frapponga sulla via di comunicazione; quindi basta seguire quel che viene fatto, ascoltare quello che viene detto meglio di come la squadra non abbia ascoltato certe proprie stesse parole, seguito propri stessi esempi.

Arguzia e fiducia. Si pensa già alla Roma.

[Marco Di Mauro – Fonte: www.mondocatania.com]