Amarcord: le nozze d’argento col 1998 di Marco Pantani

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Mentre appassionati e addetti ai lavori s’interrogano sull’attuale fattibilità del bis Giro-Tour nella stessa stagione ripercorriamo, a 25 anni di distanza, l’impresa compiuta da Marco Pantani nel 1998

raggio biciclettaNel periodo di stacco dalle competizioni, e dopo la presentazione dei percorsi di Giro e Tour (la Vuelta viene presentata giustamente un po’ dopo) l’argomento di discussione che va per la maggiore sono di solito i programmi dei ciclisti più attesi per la stagione seguente.

A quanto si legge dalle prime indiscrezioni, il Giro d’Italia rischia di essere fortemente penalizzato, perché le scelte di quasi tutti gli specialisti più importanti per le grandi gare a tappe non lo contemplerebbero, a dispetto di un percorso più morbido rispetto ad altri anni, e pensato proprio per non “spaventare” in anticipo qualcuno che volesse azzardare il doppio impegno.

Quel qualcuno al quale il Giro strizza l’occhiolino ha in realtà un nome ben preciso, quello di Tadej Pogacar, ma pare che neppure il prossimo sarà l’anno buono per vederlo al via, in virtù del fatto che il fuoriclasse sloveno ha intenzione di arrivare di slancio alla prova olimpica di Parigi, quale che sia l’esito del Tour de France e della sfida che lancerà nuovamente al danese Vingegaard.

Quello del doppio impegno Giro-Tour, con l’obiettivo di vincerli o comunque di provarli a vincerli entrambi, è da sempre la sfida che più affascina gli appassionati di ciclismo. Essendo il Tour sempre più importante nel bilancio della carriera di un corridore ma anche in quello delle squadre di club, per non metterlo a repentaglio viene semmai più abbordabile provare a correre anche la Vuelta fra agosto e settembre, con l’obiettivo di ben figurare anche lì. Il Giro invece paga lo scotto di venire prima nel calendario. Dopo il 1998, anno dell’ultima accoppiata Giro-Tour, solo due ciclisti sono riusciti a reggere ottimamente il doppio impegno, entrambi a 20 anni esatti di distanza dall’impresa di Marco Pantani: l’olandese Tom Dumoulin, secondo in entrambe le gare ed il britannico Chris Froome, che invece vinse il Giro e si classificò terzo in Francia. Lo stesso Alberto Contador, il più accreditato ed il più stimolato nel tentare l’impresa, ne era stato sempre respinto piuttosto nettamente. Nibali non ci ha mai neppure provato veramente.

Ecco perché l’impresa dell’indimenticabile Pirata fa ancora così tanto effetto, non solo perché conquistata da un ciclista capace di fare breccia come nessuno nelle simpatie dei tifosi (va ricordato comunque che Marco era stato secondo al Giro e terzo al Tour già a 24 anni, e che egli avrebbe sempre corso Giro e Tour) ma perché essa venne compiuta su percorsi che erano tutt’altro che favorevoli alle sue caratteristiche di scalatore. Del Giro di quell’anno si può dire che fosse un percorso abbastanza equilibrato, nel senso che c’erano due cronometro non troppo lunghe, attorno ai 35 km, ma pianeggianti, a Trieste e Lugano, che avevano puntualmente attirato l’appetito dello specialista svizzero Alex Zuelle, già vincitore di due Vuelta e secondo al Tour del 1995, in maglia rosa fino alle tappe sulle Dolomiti. Sulle montagne fra Veneto e Trentino, e poi sull’ultimo arrivo in salita di quel giro, sulle Alpi bresciane di Plan di Montecampione, il grande rivale di Pantani divenne, come si ricorderà, il russo col viso da incursore della steppa Pavel Tonkov, presenza fissa al Giro ad alti livelli per tanti anni e italiano d’adozione.

Prima di quella tre giorni nella quale Pantani portò la corsa dalla sua parte, di salite importanti vi era stato il solo arrivo a Piancavallo, sul quale egli aveva vinto ma guadagnando poco sugli avversari. L’anno dopo, il fatale per lui 1999, gli organizzatori gli servirono invece sul piatto d’argento un percorso molto più ricco di salite, com’era giusto e normale fare per esaltare le qualità di quello che era diventato lo sportivo italiano più amato di tutti, capace di unire la Destra e la Sinistra, gli juventini e gli interisti.

Se il rosa del Giro fu la giusta ricompensa per le tre edizioni precedenti nelle quali egli non era potuto neppure essere al via della corsa per gli incidenti di cui tutti sanno, o ne era stato estromesso prematuramente a causa di un gatto che gli attraversò la strada nella discesa campana del Chiunzi, andare al Tour quell’anno fu invece, come ammise egli stesso, un atto di riconoscenza nei confronti di Luciano Pezzi, il presidente della Mercatone Uno, scomparso pochi giorni dopo la fine del Giro d’Italia, che su Pantani aveva creduto anche quando egli si trascinava con le stampelle, dopo il terribile schianto alla Milano-Torino del 1995. Se fosse stato per lui, avrebbe preferito starsene a casa infatti, pochissima voglia aveva di andarsi a sbattere sul Tour de France altimetricamente più ridicolo della storia. Due soli arrivi in salita, uno sui Pirenei e uno sulle Alpi (per di più dalle pendenze non certo irresistibili, a Le deux Alpes) e per di più due maxi crono pianeggianti più un prologo, quasi 120 km complessivamente, un invito a nozze al primo e per ora unico vincitore tedesco del Tour, il fortissimo Jan Ullrich il quale proprio per questo, a dispetto di un inverno nel quale non aveva minimamente fatto la vita d’atleta (sarà purtroppo una costante) e che gli era costato un memorabile titolo sulla prima pagina dell’Equipe, alla ripresa delle gare di quell’anno (“Ullrich indegno del suo rango” n.d. r.), partiva come unico e solo favorito.

Dalla sua Pantani potè contare solo su una partenza della gara ritardata di una settimana rispetto al solito, per via della concomitanza coi Mondiali di calcio in terra di Francia. Egli potè allora mettere a frutto quei giorni in più per allenarsi meglio, trascorse le prime due settimane dopo la vittoria al Giro in totale recupero. Fu comunque fra gli ultimi classificati del crono-prologo in terra d’Irlanda, tenne botta poi, senza perdere ulteriore tempo a causa di cadute di gruppo, come gli era accaduto nelle precedenti esperienze al Tour, nell’allora lunghissima e monotona prima fase della gara, per pagare poi un dazio significativo ma non abissale e del tutto prevedibile nella prima cronometro a Correze, dove Ullrich vinse e prese la maglia gialla.

Le due tappe sui Pirenei, quella con arrivo in discesa a Luchon e quello impegnativo di Plateau de Beille, dove egli vinse la tappa, videro complessivamente Pantani recuperare poco più di due minuti sulla maglia gialla che, ai piedi delle Alpi, distava ancora 3 minuti, ma con ancora la cronometro di Le Crousot da correre il penultimo giorno. Delle due frazioni alpine per di più, la seconda prevedeva gli ultimi 40 km di discesa-pianura fino all’arrivo di Albertville, a smorzare la portata di eventuali attacchi sulla Madeleine. Restava solo la prima delle due frazioni, quella col Galibier dal versante più duro, prima dell’arrivo a Le deux Alpes. Quel giorno è entrato nella leggenda del Tour ed anche dello sport italiano, ma va detto che, se non fosse stato per le avverse condizioni atmosferiche, e Pantani fu il primo a riconoscerlo, difficilmente Ullrich avrebbe preso quella scoppola di oltre 9 minuti di distacco.

Il tedesco soffriva infatti molto il freddo, e salire in quelle condizioni al 2600 metri del Galibier, con un Pantani in stato di grazia, fu la peggiore delle coincidenze possibili per lui. Il giorno dopo l’orgoglio del campione, in un clima più clemente, uscì fuori prepotente, e solo la maglia gialla di Pantani resistette alle sue sfuriate sulla Madeleine. Arrivarono insieme al traguardo e Pantani non si impegnò al massimo in una volata vinta peraltro di un soffio dal rivale, che si portò a casa anche la crono di Le Creusot, con la quale sopravanzò sul secondo gradino più alto del podio lo statunitense Bobby Julich. Sul primo, con il braccio che gli veniva alzato dal grande Felice Gimondi, ad indicare il tanto atteso passaggio di consegne da quello che era stato l’ultimo italiano in maglia gialla a Parigi lui, lo scalatore cresciuto sul mare di Cesenatico.

A cura di Fabio Alfonsetti