Colucci si racconta …

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Avere trent’anni e giocare a calcio da quando hai imparato a camminare non è da tutti. Aver creduto fin da bambino che questo sarebbe stato il tuo futuro è più unico che raro, dimostra carattere, perseveranza e fiducia nelle proprie capacità. Doti da capitano.

Partiamo dall’inizio: com’è stata la tua infanzia a Foggia?
Ho iniziato a giocare a calcio in una parrocchia, dove ho fatto i pulcini e gli esordienti. Poi sono passato ai giovanissimi del Foggia, a 11 anni, e ho fatto tutta la trafila. Era l’epoca più bella: quella di Zeman. Sono sempre stato tifoso del Foggia e lo sono tuttora. Quando ero in Primavera giocavamo di sabato e appena finivo la partita prendevo il treno e andavo in trasferta a seguire la prima squadra. E nel giro di una settimana mi sono trovato a passare da tifoso a giocatore in prima squadra, prima tifavo per loro e poi giocavo con loro. Ricordo l’ultima partita che ho visto da semplice tifoso: ero andato in trasferta a Genoa, partendo il sabato sera e arrivando alle sei di mattina di domenica. Poi, quando tornai, mi chiamarono in prima squadra ed esordii con Burgnich allenatore, contro il Chievo, a Verona, subito da titolare.

Ti tremavano le gambe?
No, devo dire che da questo punto di vista sono sempre stato abbastanza freddo. Però diciamo che era un sogno che si avverava. Quando tornammo dalla trasferta facemmo una festa con tutti i miei amici più cari.

Il tuo rapporto con Foggia, quindi, è ancora molto forte?
Sì, là ci sono mia madre, mio padre, mio fratello e i miei nipoti. Io vivo a Catania con mia moglie e i miei figli, ma ho casa anche a Foggia.

Quindi come ti organizzi per tornare a casa?
Ogni fine partita torno a Catania. A Foggia vado magari per le vacanze. Mia moglie e i miei figli vengono spesso a Cesena, ma più che altro stanno a Catania, dove mia moglie lavora e i miei figli vanno a scuola.

Nella tua carriera hai cambiato molte maglie, girando l’Italia su e giù: è dipeso anche da una tua volontà di cambiare?
Assolutamente sì. Ci sono state situazioni in cui saresti rimasto, come a Reggio Calabria, ma purtroppo avevano avuto problemi economici e hanno dovuto vendere tutti e non mi hanno riscattato. A Modena, invece, ero stato benissimo e ci eravamo salvati in serie A, poi però De Biasi mi ha voluto a Brescia e sono andato a Brescia. Invece alcune volte ho scelto io, proprio per la volontà di cambiare.

Cos’è che ti piace, in particolare, nel cambiare città e società?
Mi piace conoscere le persone del posto. Oggi posso dire che riesco a capire che tipo è il livornese, o il bresciano, o il veronese e così via. Riesco a capire le mentalità e questo mi piace.

E i cesenati che tipi sono?
Gente solare, simpatica e diretta.

Adesso un po’ di paragoni: tra tutte le squadre in cui hai giocato, escluse Cesena e Foggia, a quale sei rimasto più affezionato?
La Reggina: è stata la mia stagione migliore anche perché non ho mai avuto un problema fisico e ho giocato praticamente tutte le partite. Poi sono stato benissimo anche con i tifosi e la gente di Reggio Calabria.

La squadra con il tifo migliore invece?
Qui non ne posso dire una sola. Potrei dire la Reggina, ma anche il Catania, il Verona. A Verona ho fatto i miei primi due anni in serie A e a centrocampo giocavamo io, Camoranesi e Leonardo Colucci con Mutu, Gilardino e Frick in avanti: eravamo una bella squadra. Se devo dirne solo una, dico Verona.

Prima hai detto che ti piace capire le personalità tipiche di ogni regione, ti piace scoprire e conoscere anche le città in cui vivi?
Sì, e devo dire che ho avuto sempre la fortuna di giocare in belle città. Catania è bella, Verona è bella, Reggio Calabria è piccolina e offre poco però ha un bel lungomare e le persone sono molto solari. Mi piace conoscere anche i monumenti e i piatti di ogni città.

La città più bella in cui hai giocato?
Verona.

La cucina migliore (includiamo anche Cesena)?
Allora Cesena, assolutamente.

Della città di Cesena cosa ti piace? Quando viene la tua famiglia dove andate?
Io sono molto pantofolaio e amo anche stare a casa. Poi abbiamo due bambini, di cui la più piccola ha un anno e non ci dà tregua. In questo momento facciamo fatica anche ad andare al cinema, ad esempio. L’ultima volta che siamo andati al cinema, è stato quando abbiamo giocato col Chievo, perché era venuta qua anche mia suocera e ha tenuto lei i bambini. Però quando riusciamo mi piace molto anche semplicemente passeggiare per il centro, vivere la città.

La gente che ti incontra per strada, qui a Cesena, ti ferma?
Diciamo che qui a Cesena la gente ti lascia abbastanza sereno. Non è come nelle città del sud, dove tutti ti fermano e ti parlano. In due stagioni che sono qui mi sarà capitato 2-3 volte di fermarmi a prendere un caffè e fare due chiacchiere sul calcio.

Considerando anche facebook, mi sembra che ti piaccia avere un rapporto diretto con i tifosi, o comunque non ti piace nasconderti. E’ così?
Sì, credo di essere sempre rimasto una persona estremamente semplice. I miei amici sono sempre quei 2-3 di Foggia, che conosco fin da bambino e con cui sono cresciuto. L’amicizia per me è molto importante. E con i tifosi il discorso non cambia di molto: se tu sei sempre te stesso e ti comporti sempre con semplicità poi la gente ti conosce e capisce che sei vero.

Visto che parliamo di tifosi, ti volevo chiedere di tornare su quell’incomprensione che c’era stata tra te e qualche tifoso durante la trasferta di Lecce.
Credo che episodi del genere siano prima di tutto figli della situazione non bella che stavamo attraversando. Stavamo vivendo tutti una situazione delicata: i tifosi, i giocatori, il mister e i dirigenti. Quindi è venuta fuori uno sfogo, che ora secondo me è già passato. Del resto siamo adulti e vaccinati, quindi io mi sono chiarito con quelle persone.

Ci spieghi, dal tuo punto di vista, com’era andato quell’episodio?
E’ successo che al termine della gara contro il Lecce non ho chiamato la squadra a salutare i nostri tifosi. Il punto è, te lo assicuro, che quando giochi in serie A con certe pressioni ti può capitare, al termine di una partita, di dimenticarti di una cosa del genere. Non perché non le dai importanza, ma semplicemente perché in quel momento hai la mente invasa dai pensieri della partita che hai appena finito. Ti dici: “Cavolo, la palla la potevo dare meglio!”. “Cavolo, il rigore lo potevo battere io!”. “Cavolo, se battevo io quella punizione!”. In tutto questo non ho chiamato la squadra sotto la curva. I rappresentanti con cui ho parlato, però, mi hanno fatto capire che il rispetto dei tifosi nei confronti della squadra passa anche dal fatto di andare sotto la curva, a fine partita, per prendersi gli applausi o i fischi. E in questo il capitano ha ovviamente la responsabilità di guidare la squadra. Io ho capito questo e d’ora in poi, comunque vada, la squadra andrà sempre sotto la curva a salutare i tifosi.

A Cesena, qual è la tua giornata tipo?
Quando sono solo, cerco di dormire un po’ di più, ma al massimo mi alzo sulle 9.00-9.30. Quando ci sono i bambini, invece, mi sveglio verso le 8.00, perché c’è sempre chi piange o chi vuole il papà. Se non ho nulla da fare in giro, passo la mattina a casa, poi pranzo, vado all’allenamento e quando torno guardo il telegiornale, sempre Studio Aperto.

Cucini tu o esci a mangiare?
Non cucino mai. Mi sarà capitato solo un paio di volte, qui a Cesena, di cucinare un po’ di pasta in bianco. Per il resto mangio sempre fuori, spesso ai Casali, da Maurizio, oppure al Rugantino. Spesso ceno con un amico di Cesena, che come me ha la moglie lontana, quindi è un po’ che facciamo gli “sfigati” della situazione e usciamo insieme a cena.

Prima di Cesena non ti era mai capitato di portare la fascia?
No, anche perché ho quasi sempre fatto una sola stagione, o al massimo due.

Quando hai accettato di essere capitano del Cesena hai riflettuto su cosa significava per te?
Quando si iniziava a dire che Peppe (De Feudis, ndr) se ne sarebbe andato, un po’ iniziavo a pensarci e ad aspettarmelo. Per me essere capitano significa dare l’esempio sempre e in tutto. Devi essere un trascinatore autentico, che tutti seguono perché tutti si fidano di te, della strada che stai percorrendo e sanno che non sbagli. Essere capitano significa anche saper leggere le situazioni nello spogliatoio: ci sono situazioni in cui non devi parlare, nemmeno come capitano, per non rischiare di distruggere tutto. Noi abbiamo vissuto diverse situazioni difficili e mi sono accorto che fare il capitano in una squadra come Cesena è più difficile che farlo in una grande squadra. Nella grande squadra, infatti, hai tanti campioni e l’appoggio di una società molto strutturata, e poi hai comunque sempre l’attenzione dei media. Qui a Cesena ci siamo trovati a vivere situazioni difficili, da soli tra quattro mura, in un silenzio veramente assordante. In quei momenti, secondo me, il capitano deve pensare se e cosa dire, trovare la parola giusta per essere una guida. Non è mai facile ma noi siamo sempre riusciti a superare momenti del genere.

La scelta di scendere in campo, nel riscaldamento prima del match con la Juve, con la maglia a sostegno del Giappone, com’è nata? Da chi è partita?
Sabato mattina eravamo negli spogliatoi per la rifinitura e mi è venuta in mente questa cosa. Ne ho parlato subito con Piangerelli e Antonioli e abbiamo deciso di farci stampare le magliette. Ho chiamato un mio amico di Cesena che è stato un grande, perché è riuscito a far stampare tutto in tempo per la gara della sera stessa.

Nella stessa partita hanno avuto una vetrina anche i medici-clown, di cui sei testimonial. Quanto è importante per te l’impegno sociale?
Molto. Sono anche testimonial della fondazione “Aiutare i bambini”, che porto anche sulla mia fascia di capitano e che aiuta i bambini cardiopatici. Ho due figli e avere la possibilità di aiutare altri bambini in difficoltà per me è un’opportunità importante. Cerco di mettere sempre all’asta le mie maglie, palloni autografati dalla squadra, la mia fascia, le mie scarpe, parastinchi e altre cose mie per raccogliere soldi da donare ai progetti della fondazione.

Tra i tuoi compagni di squadra attuali, c’è qualcuno con cui hai un legame più forte?
Il mio più grande amico, qui, è Luca Ceccarelli. Siamo compagni di camera già da due anni e ci consideriamo quasi quasi fratelli. E’ un ragazzo veramente eccezionale.

Nel tuo tempo libero cosa ti piace fare?
Sono un amante della musica, soprattutto italiana. Mi piace Ligabue, ma in generale mi piace molto ascoltare musica. Di recente sono stato a un concerto dei Maroon 5, mi piacciono molto anche loro. Con la tecnologia sono negato e non mi piace tutto quello che è Playstation o videogame, perché finisci sempre per diventarne quasi schiavo. Mi piace molto giocare a ping-pong, e quando posso ci gioco ancora. A casa mia a Catania ho una stanza adibita a sala-giochi: purtroppo ai miei figli ho dovuto concedere i videogiochi, ma con loro mi diverto anch’io.

Ti sei mai chiesto cosa avresti fatto se non fossi diventato un calciatore?
Potrebbe sembrare un po’ presuntuoso, ma la verità è che io ho sempre pensato a fare il calciatore e non ho mai pensato ad altro.

Anche dopo, quindi, ti piacerebbe restare in questo mondo?
Mi piacerebbe, anche perché a questo mondo ho dato tanto: ho dato ginocchia e caviglie.

Anche ai tuoi figli, se avranno un sogno, consiglierai quindi di seguirlo senza fare “piani b”?
Sicuramente sì. A me nessuno aveva mai imposto di giocare a calcio. I miei genitori volevano che mi diplomassi e mi sono diplomato in ragioneria, poi ho perseguito il mio sogno. Io non forzerò mai i miei figli nelle loro decisioni: loro dovranno capire che strada vorranno seguire. Credo che la maggior parte dei problemi che hanno oggi i bambini italiani dipende dall’educazione e dall’apprensione dei genitori.

[Valeria Del Sordo – Fonte: www.tuttocesena.it]