Il pensiero, solo il pensiero, mette i brividi. Diego di nuovo a Napoli, quella maglia numero 10 ancora tatuata sulla pelle, quel sinistro pronto ad incantare a casa sua, cinquanta candeline da spegnere in compagnia di chi non smetterà mai di amarlo. Maradona, l’unico: chi non lo vorrebbe abbracciare, stringergli solo la mano, farsi raccontare una vita da campione, un percorso da fuoriclasse, vizi e segreti di un extraterrestre del pallone. Sono stato fortunato. L’ho incontrato. Ho le sue foto appese in cameretta. L’ho guardato spiandone ogni smorfia. L’ho ammirato. Ho invidiato mio padre che l’ha conosciuto quando non aveva ancora compiuto 17 anni. E ho rimpianto quei momenti, avrei voluto essere più grande per viverli con lui.
Era il 1978, Buenos Aires, il teatro dei Mondiali, Diego depennato da Menotti, era l’Argentina di Kempes. Mio papà allenava il Napoli, io ero piccolo, piccolissimo, a 4 anni non potevo seguirlo, al massimo capivo cos’era un pallone. Un calabrese trapiantato lì, Settimio Aloisio (ve lo ricorderete, forse, come procuratore di Batistuta), obbligò il Di Marzio allenatore del Napoli a fare un salto in un quartiere popolare di Buenos Aires, era stata organizzata una partita solo per far giocare e vedere Dieguito. Me l’ha confessato mio padre, non voleva andare. Lo chiamavano in tanti, tutti proponevano giocatori, era difficile capire quali potevano essere veri talenti, impossibile andare a vederli tutti. Il destino ha voluto che ci andò, quanto vorrei esserci stato anch’io. Bastarono venti minuti. Un paio di giocate delle sue, un gol in rovesciata, quell’atteggiamento da ribelle, furioso per non essere in un campo vero, con la maglia della Seleccion.
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